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Recensione: Captain Fantastic

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Genere: Drammatico

Regia:  Matt Ross

Cast: Viggo Mortensen, George MacKay, Samantha Isler, Annalise Basso, Nicholas Hamilton, Shree Crooks, Charlie Shotwell, Trin Miller, Kathryn Hahn

Durata: 120 min.

Distribuzione: Good Films

 

 

Ben ha 6 figli, dei ragazzi intelligenti, solari e senza paura. Tre caratteristiche perfette per vivere in completa sintonia con la natura. La famiglia, infatti, si trova ad alloggiare in una piccola abitazione immersa nella foresta del Nord America e completamente isolata dal mondo esterno. Lì imparano a cacciare, a entrare a contatto con il paesaggio circostante, ma non solo; lì studiano filosofia (da Noam Chomsky a Marx), la storia, la scienza, senza tralasciare l’aspetto pratico, con gli allenamenti ogni mattino e con qualsiasi condizione fisica e climatica. Se ti fai male, non importa, c’è il gruppo che ti sostiene; se piove, nulla di grave, perché tutto questo ti rinforza. Il metodo di Ben sembra consolidare non solo la mente e il corpo dei suoi figli, ma anche il rapporto familiare, che con questa avventura diventa più forte e vigoroso di prima. Tuttavia la notizia dello stato di salute della moglie metterà a dura prova il loro legame come accade negli allenamenti mattutini. Solo che qui non riguarda la scalata della montagna o la caccia di un cervo. La sfida più grande riguarderà direttamente la famiglia, che di punto in bianco si troverà a dover fare i conti con il mondo reale.

Captain Fantastic è uno di quei film indie per il quale è davvero difficile dare un giudizio obiettivo. Matt Ross, il regista vincitore nella categoria “Un Certain Regard” del premio come miglior regia al festival di Cannes, avvolge il pubblico in un mondo suggestivo e denso di crudeltà. La scena iniziale colpisce direttamente sullo stomaco per quello che è la nostra percezione e l’educazione ricevuta, perché non si conoscono i protagonisti e non si riesce inizialmente a comprendere il loro stile di vita, ma con lo scorrere del tempo quel gesto estremamente aggressivo non è altro che routine, un metodo diverso di socializzazione che il padre ha deciso di introdurre ai propri figli anche con il consenso della madre, prima della malattia. Uno degli aspetti del genere indie americano che emerge in ogni suo lungometraggio (si pensi a Terenamente Folle o ai film recentemente usciti nelle piattaforme online come Altruisti si diventa, Tallulah o lo stesso Hell or High Water) riguarda  la raffigurazione di persone molto distanti economicamente e culturalmente. Non è tanto il racconto di nuclei familiari appartenenti al ceto medio basso a generare scalpore o indignazione, quanto mostrare la forza di certi personaggi nell’affrontare in maniera diversa la propria vita, a volte costretti da circostanze ben definite, a volte per propria scelta, come nel caso di questa famiglia.

La prima reazione è un istinto a tutelare il proprio stile di vita, categorizzando in maniera superficiale chi si ha di fronte e senza minimamente ascoltare il punto di vista dell’altro. Questo vale per ambo le parti, come accade in molte scene del film, nel quale vengono a contatto due diversi sistemi educativi che cercano (a volte inutilmente) un punto di mediazione. La bellezza di questo film sta nel mettere in dubbio entrambi i metodi, osservando in ognuno i pregi e le criticità. Tutto questo non avviene tanto dal regista, quanto nei suoi interpreti, che cercano di evidenziare i difetti di ciascun sistema. Non è tanto sapere la carta dei diritti, non è tanto comprendere l’incapacità di muoversi nella vita reale a essere il vero problema. La realtà è che nessuno ha la ricetta perfetta, nessuno è veramente “fantastico” come si direbbe. Per vivere è necessario il compromesso, che non vuol dire perdere la libertà, ma accettarsi. La magnificenza di questo film, oltre a queste riflessioni, è la sua capacità di commuovere, oltre ad avere all’interno delle scene spassose e surreali. Il clou di Captain Fantastic è la rivisitazione, toccante, meravigliosa, di “Sweet Child O’ mine”, la canzone dei Guns N’ Roses cantata da una delle figlie di Ben (peraltro identica alla madre) che con gioia esprime la vitalità di questi personaggi nonostante tutto. Ecco la risposta del film: condivisione e rispetto reciproco e della diversità. Tre parole chiave che lo rendono un’opera brillante e ribelle.

P.S. Consigliamo di non usare “interessante”. Chi lo vedrà, capirà.

Voto: 4,5 su 5

 

 

Ascoltate la canzone qui:

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