Recensione: Paterson

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Genere: drammatico

Regista: Jim Jarmush

Interpreti: Adam Driver, Golshifteh Farahani, Barry Shabaka Henley, Kara Hayward

Durata: 113 min

Distribuzione: Cinema

 

 

I due giovani protagonisti di Moonrise Kingdom parlano di Gaetano Bresci, anarchico italiano che assassinò re Umberto I per vendicare le sanguinose repressioni delle proteste per il pane ad opera del generale Bava Beccaris nel 1898. Un anarchico italiano che visse a Paterson, in New Jersey. Ad ascoltare la conversazione l’autista dell’autobus su cui sono seduti i due giovani, il protagonista del film. L’ultimo lungometraggio di Jarmush è un omaggio alla poesia delle piccole cose, ai versi di William Carlos Williams e di Frank O’Hara, che non cerca di seguire un percorso narrativo, ma rimane incastonato nella ripetizione del gesto, nell’apparente sospensione del tempo in cui vive il protagonista, tra una fermata e l’altra del suo autobus. Anche la giovane moglie, che esprime la sua creatività nel decorare la casa, sembra non uscire mai dall’abitazione. Paterson è un omaggio a questo tipo di poesia, uno sguardo rispettoso ad una vita semplice, che riesce a vivere in equilibrio tra un lavoro apparentemente monotono e lo sfogo dei versi. O condanna sottilmente l’immobilismo dei suoi protagonisti, la costruzione di una cella di parole che rischia di imprigionare l’autore stesso? L’ambiguità della narrazione è proprio la forza del film, che pur scivolando verso un romanticismo esotizzante nel finale riesce a mantenersi in un perfetto equilibrio tra queste due istanze. I due protagonisti, marito e moglie, a quale dimensione appartengono? Che significato assume la loro abitazione, sempre uguale per lui, e sempre rinnovata per lei?

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Adam Driver e Golshifteh Farahani

Lo spazio diventa una prigione in cui si attua questo conflitto tra cambiamento e immobilismo, creando un senso di straniamento. Il protagonista, che si chiama proprio come la sua città, Paterson, non riesce a uscire da uno schema, ordinato, semplice, rassicurante, non vuole fotocopiare i suoi lavori, né iniziare a pubblicare i suoi scritti. È un autista, è un poeta? In ogni caso ci pensa il cane a dare una strigliata alla situazione, rappresentando un istinto vitale fin troppo oppositivo e distruttivo, ma che obbliga il protagonista a interrogarsi sul senso di ricominciare un percorso sempre uguale, senza deviazioni. Il film non offre alcuna risoluzione, se non nel volerci comunicare un piacere nella vita semplice, nel riuscire ad accontentarsi di ciò che si ha senza per questo rinunciare a dare voce a qualcosa che oltrepassa la necessità quotidiana, che dona un senso alla noia e alla ripetizione. Come nel lavoro letterario di Carlos Williams, il film scompone in un caos geometrico e regolato la percezione visiva del protagonista, sovrapponendo i suoi scritti e le sue riflessioni alla successione temporale senza mutamento delle sue giornate. Da un dettaglio minimo, come una marca di fiammiferi il protagonista trae ispirazione per la sua astrazione quotidiana. Il suo sguardo che sembra attraversare i mattoni di Paterson, le rocce e le cascate, è perennemente distaccato dalla realtà circostante, riuscendo ad oddervarla con cuiosità e trarne materia poetica. Come la poesia di Paterson, senza rima, Jarmush non ci aiuta con una narrazione avvolgente e stimolante, ma preferisce riproporre uno sguardo esteticamente misurato verso la normalità quotidiana, senza per forza dover far emergere lo straordinario che giace sotto la superficie. E questo è uno degli aspetti essenziali di questo lungometraggio.

Un film come Paterson non rappresenta un rinnovamento nella filmografia di Jarmush, ma riesce a costruire una narrazione affascinante seppur ripetitiva, fino all’esasperazione, costruendo su un cast ridotto al minimo eppure estremamente coeso e affiatato una prospettiva semplice, che riporta il cinema ad un mondo di normalità, seppur eccezionale, lontana dalle luci di La La Land e dallo sfarzo hollywoodiano.

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