Recensione: Scappa – Get Out

Genere: Thriller

Regia: Jordan Peele

Cast: Daniel Kaluuya, Allison Williams, Bradley Whitford, Katherine Keener

Distribuzione: Universal Pictures

Durata: 104 min

 

Il debutto cinematografico di Jordan Peele si manifesta come una ricca immersione nell’America più profonda e nascosta, che risiede oltre i filari degli alberi che sovente scorrono sui finestrini delle auto. Quella a cui viene sottoposto lo spettatore è un’apnea profonda e disturbante, come quella che subisce Chris, il protagonista, durante una seduta di ipnosi coatta. Il lungometraggio segue la visita di una coppia interraziale alla famiglia di lei, che sebbene amichevole, dimostrerà presto al protagonista di celare sfumature inquietanti. Peele si rivela un ottimo orchestratore di tensione, che riesce a soggiacere un centimetro al di sotto della diegesi, attraverso un uso molto ridotto ed efficace della profondità di campo, dell’alternanza tra primo piano e sfondo, e della lentezza delle carrellate che attraversano la casa e il giardino della famiglia Armitage. L’interpretazione degli attori si rivela essenziale nel definire l’estetica del film, turbando la narrazione grazie ad una compostezza espressiva impressionante, tuttavia nella prima parte il film risulta eccessivamente televisivo nella prosecuzione degli snodi narrativi, ricalcando con inquietudine una versione aggiornata di Indovina chi viene a cena?. Il nucleo principale del film consiste nell’affrontare con freschezza ed aggressività le tematiche del conflitto razziale e della condizione afroamericana, non tralasciando nessun aspetto: la violenza della polizia, gli stereotipi sul corpo dei neri, i luoghi comuni sulla svantaggiata condizione afroamericana, il pietismo, l’imbarazzo nell’esposizione della propria ipocrisia.

                                       

Questi stessi luoghi comuni si trasfigurano in uno dei più sottili espedienti narrativi, celando l’orrore al di sotto di una rappresentazione che tende disperatamente alla satira sociale. Una satira spietata nella rappresentazione della famiglia americana wasp come fulcro di deviazione e ricettacolo di sopraffazione.  Ogni elemento assume una connotazione perturbante, costruita attraverso i movimenti circolari della fotocamera di Chris, il cui obiettivo riesce a scovare le tracce della violenza sotto la patina di provincia ideale che copre e soffoca l’alterità nell’universo da lui esplorato. Un altro tema essenziale risiede in un sottile incastro metacinematografico che il regista costruisce nelle scene delle sedute ipnoterapiche: Chris viene costretto ad osservare una sua soggettiva dall’interno di se stesso, dalle profondità del suo inconscio. Questa condizione di dispersione labirintica si concretizza come uno sguardo perso nel vuoto, che osserva uno schermo, una luce che si staglia nel buio, metafora non molto sottile della spettatorialità cinematografica.

Anche il finale, di cui esiste una variante più cupa e che può ricordare il filone della black revenge recentemente rinverdito da Quentin Tarantino, conclude il meccanismo ad incastro, che dopo aver sfaldato ogni promiscuità o luogo comune, lascia lo spettatore partecipe, attonito, e profondamente turbato.

Voto: 3,5 su 5

Trailer:

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