Recensione: Suburbicon

Genere: Drammatico

Regia: George Clooney

Cast: Oscar Isaac, Matt Damon, Josh Brolin, Woody Harrelson, Julianne Moore, Glenn Fleshler

Durata: 104 min.

Distribuzione: Paramount 

 

 

 

Ehi tu. Dico proprio a te, uomo dalla pelle lucida e biancastra. Sei stufo che la tua vita sia costantemente minacciata dallo straniero? Tu, che odi il nero anche quando in televisione non avevi alternativa vista l’obsolescenza degli apparecchi, che ne dici di venire qui da noi, a Suburbicon? Non verrai assolutamente deluso, perchè qui vige la pace, la pulizia e il rispetto reciproco. Case costruite su misura, scuole all’avanguardia, e, soprattutto, vicini affabili e disponibili. Insomma, che cosa state aspettando, lattescenti americani? Volete ancora vivere nella uggiosa New York City o nella frenetica Los Angeles, quando potete avere tutto qui, nella sorridente città di Suburbicon? Immaginatevi tutto questo, ma animato da sontuose animazioni. Questo è, rivisitato sia chiaro, l’introduzione dell’ultimo film di George Clooney, presentato alla 74° Mostra del cinema di Venezia. In pratica è la versione rivisitata e contestualizzata di una famosa pubblicità nostrana, dove non ci sono mulini ma case a schiera perfettamente omologate. Ma attenti, perchè qui non tutto va liscio come l’olio, eh no. L’italiano lo sa meglio di tutti, e l’indizio sta sul titolo. Suburbicon. Notate qualcosa di strano, di oscuro e malvagio che sta per emergere e attaccare la pacifica comunità?


La radice subur- è segno di sventura. Stefano Sollima e il trio Placido – Molaioli – Capotondi ce l’hanno già illustrato, con Suburra, il luogo della corruzione non solo economica, ma morale. Anche qui entra in gioco questo meccanismo morboso, che tocca anche una città idealizzata e in apparenza inappuntabile. Arriva l’uomo nero, che terrorizza la gente per il solo fatto di esistere, e non appena scoprono che questa famiglia di colore, i Meyers, ha acquistato una casa in uno dei quartieri, ecco che tutta la popolazione insorge, pretendendo che tutto ritorni in ordine. Intorno a questo scontro culturale che va via via crescendo, si sviluppa la storia di Gardner Lodge, un impiegato modello. Vive con la moglie Rose, in sedia a rotelle, e con il piccolo Nicky. Insieme a loro, ci sta anche la sorella gemella Margaret, che cerca di aiutarli come può, fino a quando un evento spiacevole, casualmente proprio quando arriva la famiglia afroamericana, colpisce l’equilibrio stesso dei Logde.

George Clooney, appoggiato dalla sceneggiatura dei fratelli Coen, compie una grossa critica politica verso il suo Paese, nel pieno dell’era trumpiana, utilizzando la vena sarcastica che i registi di Fargo e de Il Grande Lebowski ci hanno costantemente abituato. La banalità del male è uno dei temi che spesso viene trattato nella cinematografia coeniana, con soggetti essenzialmente ingenui e, in alcuni casi, mediocri (il personaggio di Margaret, interpretata da Julianne Moore, ne è la rappresentazione più evidente in questa storia). Se poi si unisce la miseria (etica) con la crudeltà che ne consegue, ecco che i danni aumentano a dismisura. Il protagonista, Gardner Lodge, ne è l’esempio più lampante. Matt Damon lo raffigura con la mandibola che sporge lievemente, in modo da ottenere una figura che si presenta al pubblico in modo scorbutico e introverso. In alcune sequenze sembra un uomo indifeso, che non vive la giornata al pieno delle sue forze (d’altronde siamo a Suburbicon). A che serve? Tutto tace in città, e la gente è contenta di ciò, perchè non ha problemi. Si è chiusa nel suo guscio a vivere il sogno americano, ma è bastato un soffio a distruggere l’illusione che questi ritenevano possibile. L’astuzia della coppia Clooney – Coen, è di ritrarre una società che fa leva su nobili ideali per poi dimostare nei fatti la loro ineguatezza e stupidità in ogni sua singola azione, da quella quotidiana fino a quelle, come nel film, che hanno una valenza universale. Joel ed Ethan Coen sono gli unici a comprimere tutto questo con quel percettibile sense of humour e con la leggerezza della commedia. Si ride, si riflette, ma soprattuto, convince per la sua schiettezza di fronte ai problemi odierni che sembravano estinti. A questo punto è meglio di rimanere nella nostra imperfetta cittadina, perchè si presenta così com’è, senza mentire.

Voto: 3 su 5

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