Recensione: Vanishing Time – The Boy Who Returned

Genere: Fantascienza

Regia: Uhm Tae-Hwa

Cast: Gang Dong-Won, Shin Eun-Soo, Lee Hyo-jeong, Kim Hee-won, Kwon Hae-Hyo

Durata: 130 min.
 

 

 

 

 

 

Soo-Ring è costretta a vivere in un orfanotrofio a causa della perdita prematura della madre. Nonostante le vicende personali, non si perde d’animo, anzi. La bambina non mette alcun freno alla sua creatività, creando un codice e un linguaggio totalmente autonomo. In seguito conosce un gruppo di ragazzi che, sebbene all’inizio rifiutano la sua compagnia, decidono di portarla nel cantiere dove si sta costruendo una serie di gallerie. Lì troveranno una grotta misteriosa, con all’interno un uovo luminescente, che spesso viene nominato nei miti locali, ma ben presto conosceranno il segreto che si cela al suo interno.


Leggenda e realtà sono spesso messi in discussione nel cinema di fantascienza. Chi non crede in qualche qualche racconto del passato in cui si narra un’impresa senza dubbio memorabile di un eroe contro una qualsivoglia ingiustizia? In Vanishing Time, il film di Um Tae- Hwa, racconta invece uno degli scenari ucronici che l’uomo spesso si è chiesto: che cosa succederebbe se un giorno il tempo si fermasse? Non è una passeggiata, e i protagonisti lo sanno bene. In molti lungometraggi un oggetto (o un essere) spesso possiede la capacità di muovere gli individui in un’altra dimensione. Si pensi a It di Stephen King o al recente Stranger Things, dove sia il personaggio di Pennywise sia il luogo rappresentato dal sottosopra concentrano ogni genere di pura che si ritrova in ciascuno di noi. Si pensi al classico (e più felice) Alice nel paese delle meraviglie, con l’entrata di una grotta che spinge la ragazza in un mondo impercettibile all’occhio umano, anche se con toni meno oscuri che rimandano a un paesaggio bucolico e inconfondibile.

Qui sempre ci si trova a immergersi in un luogo vietato alla visione adulta, ma anziché ritrovarsi in un sogno, i personaggi rimangono intrappolati in un incubo, un’esperienza accentuata dal colore verde acceso che ricorda il terrore e l’angoscia degli episodi di Alien. Qui sempre è percettibile un timore che riaffiora in ciascun ragazzo, ma che, a differenza dei casi precedenti, riguarda più la paura di crescere, di diventare veramente adulti. Il film, dunque, riesce a centrare l’obiettivo ottenendo diverse sensazioni, dalla gioia dei bambini alla ricerca di un’avventura e dei segreti più nascosti del paese, al dolore di questi nel momento in cui non vengono compresi per nulla dai propri abitanti, come se non si utilizzasse lo stesso linguaggio. Vanishing Time pecca tuttavia nel finale, con alcune scelte quantomeno discutibili sul proseguo della storia e dei suoi interpreti. Resta comunque un  prodotto fantascientifico sud coreano rispettabile, con una forza visiva imponente e con lo stile ibrido tipico del cinema sud coreano.

Voto: 3 su 5

Il trailer

La presentazione del film al FEFF

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